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La questione palestinese: attualità e centralità di una lotta

questione palestinese

di Louis Allday (articolo pubblicato su The Electronic Intifada, traduzione e note a cura di Giuseppe Sini)

Se Edward Said avesse vissuto tanto a lungo da assistere al sordido spettacolo inscenato dall’amministrazione Trump, con l’annuncio del cosiddetto Accordo del secolo, ne sarebbe rimasto senza dubbio disgustato, ma di certo non sorpreso. Dopo che il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Yasser Arafat, appose la sua firma agli Accordi di Oslo con Israele nel 1993, Said scorse, con la consueta lucidità e lungimiranza, le rovinose implicazioni di questo presunto trattato di pace.

Nel clima di ottimismo suscitato dall’accordo in alcuni ambienti, l’intellettuale palestinese commentò aspramente quanto esso fosse “più lacunoso e sfavorevole […] di quello che in molti si aspettavano”. Aggiunse inoltre che “la volgarità mondana della cerimonia alla Casa Bianca” era servita soltanto a oscurare temporaneamente “le proporzioni davvero sorprendenti della capitolazione palestinese”.

Nel suo fondamentale libro Fine del processo di pace, avendogli dato ragione gli sviluppi dei sette anni successivi a Oslo, Said ebbe ad affermare (1) che lo “spirito coloniale” del processo di pace significava che USA e Israele erano ben lieti di concedere ai palestinesi simboli di sovranità, come una bandiera, privandoli nel frattempo della reale sovranità, del diritto al ritorno per tutti i rifugiati, dell’autosufficienza economica e dell’indipendenza.

Said, comunque, non fu solo nell’individuare chiaramente la traiettoria della capitolazione di Arafat e dell’OLP, nonché nel comprendere dove avrebbe condotto qualsiasi negoziazione intrapresa sotto l’egida degli Stati Uniti.

“Tra la spada e il collo”

Autentici e coerenti leader rivoluzionari della causa palestinese, come George Habash, predissero analogamente l’esito disastroso di un simile approccio, il quale, sebbene conclusosi a Oslo, aveva avuto inizio con una serie di capitolazioni ed errori nei decenni precedenti. Nel 1984, Habash dichiarò che le decisioni di Arafat significavano che quest’ultimo “aveva perso la fiducia delle masse palestinesi senza ottenere niente” (2).

Ancor prima, nel 1970, l’amico e compagno di militanza di Habash (3) Ghassan Kanafani – assassinato da Israele nel 1972 – sostenne, con la caratteristica combinazione di eloquenza e schiettezza, come ogni “colloquio di pace” con Israele corrispondesse di fatto alla “capitolazione, alla resa… una sorta di conversazione tra la spada e il collo”.

Nel marzo del 1967, alla terza Conferenza degli scrittori afroasiatici, tenutasi a Beirut, passò una risoluzione la quale definiva Israele “una base e uno strumento imperialisti usati con scopi aggressivi nei confronti degli stati arabi, al fine di rimandare il loro progresso verso l’unità e il socialismo, oltreché una testa di ponte su cui l’imperialismo faceva affidamento così da mantenere la propria influenza sugli stati africani e asiatici”. Un’affermazione, quest’ultima, la cui accuratezza non è diminuita rispetto a mezzo secolo fa.

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L’Accordo del secolo andrebbe compreso in tale contesto; ossia come una prosecuzione della politica USA consistente nell’usare Israele in questo modo. In effetti, il sostegno iniziale della Gran Bretagna al movimento sionista era emerso in larga parte dalla stessa motivazione.

Sir Ronald Storrs, primo governatore britannico a Gerusalemme, descrisse la prospettiva di una “patria ebraica” in Palestina come l’opportunità, per l’Impero britannico, di avere “un piccolo e leale Ulster ebraico in un mare di arabismo potenzialmente ostile”. (4)

L’intellettuale palestinese Fayez Sayegh fece eco a quest’idea quando, nel 1965, argomentò che “l’alleanza di convenienza e mutuo bisogno” emersa tra l’imperialismo britannico e il colonialismo sionista era ciò che aveva condotto la Gran Bretagna a rilasciare la Dichiarazione Balfour nel 1917.

A seguito della Nakba e della fondazione di Israele nel 1948, l’ex sponsor di quest’ultimo finì per essere rimpiazzato dall’impero USA. Hasan Nasrallah, leader del movimento di resistenza libanese Hizballah – astuto e implacabile avversario dell’imperialismo statunitense e israeliano, a suo tempo descritto da Habash come “un autentico rivoluzionario” – così si è espresso in merito nel 2015: “immaginate se l’America si ritrovasse indebolita e espulsa dalla regione, o gravata da questioni sociali ed economiche interne, quale sarebbe allora il destino di Israele? Israele è compatibile con la nostra regione? Questo mai. Israele è uno strumento americano” (5). 

Sugli Stati Uniti, secondo Nasrallah, ricade la responsabilità principale dei crimini di Israele, poiché  quest’ultimo, senza l’appoggio USA, non può persistere.

La pretesa di una resa palestinese

È dunque chiaro – come spesso avvenuto durante la presidenza Trump – che nonostante la crudeltà e l’incommensurabile spregio nei confronti di coloro che lo subiranno, l’Accordo del secolo, nella sua essenza, è la continuazione e l’intensificazione della politica di tutte le precedenti amministrazioni USA. Il processo di pace a guida USA è sempre stato un mezzo per assicurare il dominio israeliano e la resa palestinese, senza mai prevedere un sincero sforzo per giungere a una soluzione giusta e duratura.

Sulla scorta di ciò, quest’ultima iniziativa mira a consolidare e formalizzare le acquisizioni di Israele a spese dei palestinesi e di altri nella regione, attraverso anni di illusori colloqui di pace. Niente illustra meglio quanto detto più della nomina di un corrotto criminale di guerra come Tony Blair quale inviato del Quartetto per il Medio Oriente – il gruppo ad hoc di rappresentanti statunitensi, ONU, UE e russi che pretendevano di supervisionare il processo di pace.

Difficile immaginare una figura più inappropriata e meno disinteressata per una simile posizione di quella di Blair e, dopotutto, il fatto che egli l’abbia ricoperta per quasi un decennio dal 2007 la dice lunga circa la legittimità e sincerità del Quartetto quale organo di mediazione neutrale.

Forse l’unica differenza rispetto a l’ultima grossolana iniziativa è che con Trump presidente, gli Stati Uniti hanno ormai smesso di fingere, a livello di discorso ufficiale, di essere un parte terza neutrale che desidera la pace. Oramai pretendono in modo esplicito la resa permanente dei palestinesi. Tale escalation retorica è stata accompagnata sui media occidentali da un tropo, implicante che le popolazioni della regione non si preoccupano più della causa palestinese (6). 

Eppure, anche solo negli ultimi giorni, vi sono state proteste e manifestazioni in solidarietà ai palestinesi, oltreché in segno di rifiuto dell’accordo, in tutta la regione, dalla Giordania all’Algeria passando per la Tunisia e lo Yemen. In quest’ultimo paese, i manifestanti si sono radunati attorno a uno slogan che definisce esplicitamente quella palestinese come la loro “causa centrale”.

In un’area afflitta da molteplici crisi e guerre tra loro interconnesse – denominatore comune delle quali è l’imperialismo USA e il sistema capitalistico di cui è garante – la Palestina rimane una questione di rilevanza fondamentale per milioni di persone ed è una menzogna sostenere il contrario.

Certo, è vero che la lista di governi arabi che ormai neanche fingono più solidarietà nei confronti dei palestinesi si è sfortunatamente allungata. Il supporto iniziale all’accordo di Trump offerto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Baharain, è oltremodo vergognoso (7). Ma il sostegno di alcuni attori regionali non costituisce la misura di come la causa sia considerata a livello popolare. Né implica che tutti gli altri stati della regione abbiano adottato la stessa linea proditoria. Molti stati, inclusi Tunisia, Algeria, Kuwait e Siria, si sono pronunciati immediatamente contro l’accordo (8). 

In seguito – probabilmente in risposta alla diffusa levata di scudi che lo ha accolto – persino la moribonda Lega Araba ha rigettato l’accordo e gli stati arabi che dapprima avevano portato il loro supporto hanno fatto marcia indietro. L’Organizzazione della cooperazione islamica e l’Unione Africana, entrambe rappresentanti decine di stati, hanno anch’esse respinto il piano di Trump (9). 

Il destino di Sadat

La deplorevole tendenza degli stati arabi a firmare trattati di pace con Israele, o ad abbandonare in altro modo la causa palestinese, ebbe effettivamente inizio con la decisione del presidente egiziano Anwar Sadat di visitare Gerusalemme nel 1977, una mossa che spianò la strada al trattato di pace Egitto-Israele due anni dopo.

La reazione popolare all’assassinio di Sadat nel 1981 dovrebbe essere ritenuta illustrativa per quei governanti contemporanei del mondo arabo che hanno abbandonato la causa palestinese. I funerali del presidente egiziano  – ai quali presenziarono pochi dignitari locali e di altri pesi arabi – misero in chiaro l’attitudine del popolo egiziano e degli arabi in generale nei suoi confronti.

“Tutto l’Egitto… è rimasto fermamente indifferente alla sua inumazione come alla sua scomparsa”, riportava il The Sunday Time, “i soli a esprimere cordoglio al… funerale, a parte i parenti e il governo di Sadat, erano gli stranieri (occidentali) la cui ammirazione e adorazione egli aveva tanto assiduamente cercato e ottenuta” (10). Secondo le parole dell’autore e giornalista Dilip Hiro, “in generale, le popolazioni della mezza luna fertile erano apertamente esultanti per l’assassinio di Sadat”. L’atmosfera prevalente era ben resa dal titolo del quotidiano di Damasco Tishreen: “Il traditore cade, l’Egitto rimane”.

Vi è dunque una ragione per cui in un ignobile pezzo pubblicato sul The New York Times lo scorso anno, Danny Danon, ambasciatore israeliano presso l’ONU, ha scritto, “Israele attende l’emergere di un Anwar Sadat palestinese” (11). È significativo inoltre che membro di un piccolo e irrilevante gruppo denominato Consiglio arabo per l’integrazione regionale, promosso dal The New York Times lo scorso anno – perché fa appello all’abbandono dei boicottaggi e a favore della normalizzazione delle relazioni con Israele – altri non sia che il nipote di Sadat, del quale porta anche il nome.

“Indivisibile”

In definitiva, Israele, gli Stati Uniti e i loro alleati vogliono schiacciare qualsiasi solidarietà internazionale con la Palestina, come evidenziato dai numerosi tentativi atti a criminalizzare o bloccare i boicottaggi nei confronti di Israele negli stessi USA, Gran Bretagna, Germania e Francia, così come l’ormai abituale confusione tra anti-sionismo e anti-semitismo.

L’argomentazione disonesta secondo la quale neanche le popolazioni della regione si preoccupano più riguardo alla Palestina deve essere intesa come un’ulteriore componente dello sforzo per minare il sostegno pubblico alla causa. La fermezza, o il sumud, dei palestinesi non è in dubbio. E dunque incombe su coloro tra noi che hanno a cuore questa causa il dovere di assicurarsi che – nonostante le illusioni imperialiste e i pii desideri di gente come Jared Kushner, nonché dei loro venali alleati nei media – la Palestina rimanga una questione centrale e pressante fino al giorno in cui sarà liberata.

“Il problema della Palestina, sebbene affligga direttamente solo i palestinesi, non riguarda esclusivamente questi ultimi”, concludeva Sayegh nel suo scritto del 1965 Zionist Colonialism in Palestine (12). “Come impresa coloniale, sbocciata in modo anomalo esattamente nel momento in cui il colonialismo iniziava a svanire, è di fatto una sfida a tutti i popoli anti-coloniali”.

“Poiché, in ultima analisi”, scrive ancora Sayegh, “la causa dell’anti-colonialismo e della liberazione è una e indivisibile”.


Articolo originale – Palestine is (still) the issue

Note

1) Edward W. Said, Fine del processo di pace, Feltrinelli, 2002

2) https://twitter.com/Louis_Allday/status/909811714551697409

3) https://twitter.com/Louis_Allday/status/796026160480186368

4) https://archive.irishdemocrat.co.uk/features/divide-and-rule/

5) https://www.mediarelations-lb.org/article.php?id=14183&cid=124

6)https://www.theguardian.com/world/2020/jan/28/where-once-there-was-fury-palestinian-issue-now-stirs-up-apathy-in-region

7)https://www.timesofisrael.com/iran-turkey-slam-trump-peace-plan-as-uae-saudi-arabia-urge-negotiations/

8)http://www.xinhuanet.com/english/2020-02/03/c_138750467.htm; https://twitter.com/wmuhaker/status/1226121536823844866; https://sana.sy/en/?p=183725

9)https://www.rt.com/news/479858-arab-league-rejects-palestine-deal/; https://www.rt.com/news/479965-arab-cooperation-rejects-trump-plan/; http://www.rfi.fr/en/international/palestine-israel-african-union-au-leaders-reject-us-middleast-peace-plan-during-summit

10)Inside the Middle East (Routledge Revivals) di Dilip Hiro

11) https://www.nytimes.com/2019/06/24/opinion/palestinian-peace-bahrain-conference.html

12)http://www.freedomarchives.org/Documents/Finder/DOC12_scans/12.zionist.colonialism.palestine.1965.pdf

 

One Reply to “La questione palestinese: attualità e centralità di una lotta”

  1. Hezbollah e l’ingerenza USA/Israele in Libano – Ottobre says: 29 Ottobre 2020 at 9:00

    […] sinistra, Internazionale, dà spazio al luogo comune secondo cui “le popolazioni della regione non si preoccupano più della causa palestinese” [5]. Viene così occultato non solo il ruolo del movimento guidato da Nasrallah, o la […]

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