Loading...

Alle origini di Israele, socialismo o colonialismo?

propaganda israeliana

Le argomentazioni cui ricorre la propaganda israeliana nel fare appello alla sensibilità progressista sono ampiamente note e, sinteticamente, possono riassumersi nel vantare l’attenzione dello stato israeliano a una serie di tematiche, dall’ambientalismo al femminismo passando per le rivendicazioni LGBTQ+; forse meno conosciuti sono invece militanti, organizzazioni e studiosi impegnati a respingere e smontare simili strumentalizzazioni. Un malcelato bigottismo in certa sinistra, anche comunista, talvolta conduce a considerare queste battaglie per i diritti civili, al pari dei movimenti e individui che ne sono portatori, particolarmente spendibili dalla propaganda imperialista; ai fini di quest’ultima, organizzazioni, temi e il linguaggio tradizionali del movimento dei lavoratori sarebbero meno cooptabili.

Niente di più lontano dalla realtà, basti pensare, quanto alle organizzazioni, al ruolo nefasto dell’AFL-CIO (American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations), la più grande federazione sindacale degli Stati Uniti, nel sostenere l’imperialismo USA [1]; o ancora, il ricorso al linguaggio del conflitto di classe, con dotto richiamo a più meno azzeccate argomentazioni marxiste, per delegittimare movimenti e stati impegnati nella resistenza all’aggressione israeliana tanto nella Palestina occupata che nei paesi vicini come il Libano, senza risparmiare il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) bollato con l’approssimativo e poco fantasioso epiteto di “stalinista.

Ritornando al ruolo delle organizzazioni sindacali, nel 1962 l’accademico e politicante repubblicano George C. Lodge, scrivendo della loro importanza quali strumenti della crociata anticomunista – in particolare in Asia, Africa e America Latina – così si esprimeva sull’Histadrut (Federazione generale dei lavoratori in terra d’Israele):

[…] è senza dubbio una delle armi più importanti nella politica estera di Israele […] il suo esempio come sindacato sta attirando una crescente attenzione da parte di leader dei lavoratori in Africa e Asia […] rendendosi conto della loro [dei sindacati, n.d.t.] vulnerabilità alla sovversione […] essi volgono sempre più lo sguardo verso Israele […]

Fatto interessante da notare, negli anni Sessanta e Settanta, nelle fabbriche automobilistiche di Detroit, gli immigrati arabi e gli afroamericani in esse impiegati si trovavano entrambi a fronteggiare ostilità e discriminazioni non solo da parte del padronato, bensì anche del sindacato United Auto Workers (UAW), affiliato all’AFL-CIO. In questo contesto emergeva la League of Revolutionary Black Workers (LRBW), la quale oltre a organizzare i lavoratori neri – trovando talvolta il sostegno di quelli arabi che ne condividevano la condizione in fabbrica e già mobilitatisi per contestare i rapporti tra UAW e Israele – sosteneva esplicitamente le lotte di liberazione nazionale, compresa quella palestinese; un esempio concreto, e interno agli stessi USA, di ciò contro cui metteva in guardia Lodge additando quale esempio positivo di sindacalismo non conflittuale l’israeliana Histadrut [2].

Il ruolo dell’Histadrut, il kibbutzismo e l’affiliazione con diverse sfumature al socialismo di alcuni teorici e precursori del sionismo, così come di parte consistente dei padri fondatori di Israele, costituiscono ancora un forte richiamo per quei progressisti che ritengono gli esiti più brutali della politica israeliana nei confronti dei palestinesi una deviazione. Come se l’espulsione dei palestinesi non fosse messa in conto e attuata da dirigenti laburisti quali Ben-Gurion, come se ai teorici ed esponenti del sionismo non fosse chiaro il carattere inevitabilmente colonialista di tale ideologia, compresi quelli di orientamento marxista:

La colonizzazione in Palestina è un compito particolarmente difficile. Ma a dispetto di difficoltà e temporanei fallimenti, la colonizzazione in Palestina si sta sviluppando e gradualmente approssimando all’ideale socialista. […] La colonizzazione cooperativistica, nella quale il lavoratore ebreo svolge un ruolo rilevante, è anche la via per una società socialista in Palestina. Sebbene la colonizzazione non è di per sé il socialismo, insegna tuttavia al proletariato ebraico l’elementare lezione dell’auto-sostegno.

Così si pronunciava nel 1917 Ber Borochov, teorico marxista e membro del Partito socialdemocratico ebraico – Poale Zion (Esdrp-Pz); quest’ultimo certo, quanto agli arabi, respingeva l’accusa “dell’odioso crimine di voler opprimere ed espellere gli arabi dalla Palestina”, e proseguiva prefigurando con ottimismo un futuro di convivenza:

Una volta le terre desolate pronte per la colonizzazione, una volta introdotta la tecnica moderna e una volta rimossi gli altri ostacoli, vi sarà terra a sufficienza per sistemare sia gli ebrei che gli arabi. Normali rapporti tra ebrei e arabi potranno e dovranno prevalere.

Se non manca il motivo della Palestina terra nullius, base dell’ancor oggi pervasiva retorica del deserto fatto fiorire da Israele, un altro membro del Poale Zion, Leon Chasanowich, proponeva invece una versione sionista di un classico colonialista, quello della “missione civilizzatrice”:

I metodi di coltura introdotti dagli ebrei e sconosciuti agli arabi consentirebbero l’insediamento di massa ma, allo stesso tempo, spianerebbero la strada all’ascesa culturale ed economica degli arabi […] Gli ebrei compirebbero una missione civilizzatrice nel senso migliore del termine aprendo la Palestina alla cultura moderna

Una simile posizione trovava spazio, sebbene con un linguaggio più marxisteggiante, nella rivista teorica dell’ala revisionista della socialdemocrazia tedesca, Sozialistische Monatshefte, nella quale a proposito del sionismo si poteva leggere nel 1920, “Come ogni forma di colonizzazione, quella sionista-ebraica della Palestina mira a sviluppare le forze produttive del paese ed è dunque un fattore di progresso culturale”; il che è del tutto in linea con la visione positiva del colonialismo e dell’imperialismo – quantomeno nella sua versione britannica – che tale corrente, e in particolare Eduard Bernstein, propugnava già nel 1907 al Congresso della Seconda Internazionale a Stoccarda (e avversata da Lenin che la definiva “mostruosa” e “quanto vi può essere di più confuso”).

In altre figure riconducibili agli esordi della loro carriera politica al Poale Zion, come Ben-Gurion, il prevalere dell’aspetto colonialista su quello socialisteggiante emerge esplicitamente; “non siamo lavoratori – siamo conquistatori. Conquistatori della terra” scriveva il futuro primo ministro di Israele, mentre il suo successore in quella carica e anch’egli esponente laburista di primo piano, Moshe Sharett, affermava “Non stiamo venendo in una terra desolata per ereditarla; semmai, stiamo venendo a conquistare la terra alla nazione che vi risiede”, avendo il buon gusto di non indulgere nel luogo comune della “terra senza un popolo” [3].

A proposito del carattere colonialista del sionismo, il grande storico Zeev Sternhell, in un articolo del 2010 intitolato “In Defence of Liberal Zionism”, affermava la sua non eccezionalità rispetto ad altri movimenti nazionali e respingeva la definizione stessa di colonialismo; a sostegno di ciò mobilitava oltre a Ben-Gurion, una altro teorico del laburismo, Berl Katznelson, riportando però dichiarazioni di entrambi analoghe nei contenuti a quelle qui citate, nonché Yitzhak Tabenkin, “anch’egli un nazionalista e anti-marxista, uno dei fondatori del movimento dei kibbutz”, sostenendo che quest’ultimo “favoriva la conquista, ma odiava il colonialismo”. A detta di Sternhell, Tabenkin e altri esponenti sionisti “fallirono nel vedere che la conquista della West Bank avrebbe, per la prima volta nella storia del sionismo, creato una situazione di tipo coloniale”; insomma, costoro parlavano chiaramente di conquista – e nel caso di Sharett ammettevano senza infingimenti che ciò avveniva a spese della popolazione araba – ma non può essere loro attribuita una “mentalità colonialista”, salvo che il loro operato ha poi condotto a una “situazione di tipo coloniale”.

Col dovuto rispetto, sembrano argomentazione assai contorte, sorvolando poi sull’affermazione secondo la quale l’espulsione e i massacri di palestinesi come a Deir Yassin furono “iniziative locali […] perpetrate da militanti di frange dell’estrema destra” e che “non vi fu mai una politica di espulsione organizzata”; quest’ultima vi fu eccome, e Deir Yassin ebbe luogo in tale contesto, basti pensare al Piano Dalet, elaborato e messo in atto dall’Haganah, in cui si raccomandava senza mezzi termini:

Distruzione di villaggi (dare fuoco, far saltare in aria e minare le macerie), in particolare quei centri abitati difficili da controllare continuativamente.  Allestire operazioni di setacciamento e controllo secondo le seguenti linee guida: accerchiamento del villaggio e perquisizione al suo interno. In caso di resistenza, la forza armata deve essere annientata e la popolazione espulsa al di fuori dei confini dello stato.

Ben-Gurion era al corrente e responsabile di tutto ciò e, aneddoto interessante, rinfacciava al partito MAPAM (Partito unificato degli operai), di orientamento più esplicitamente marxista e filo-sovietico rispetto al MAPAI (Partito dei lavoratori della Terra d’Israele) – quest’ultimo annoverava tra i suoi principali dirigenti lo stesso Ben-Gurion – di accusarlo ipocritamente di “implementare una politica di espulsioni” sostenendo che i suoi esponenti “si sono trovati ad affrontare una crudele realtà… [e] hanno visto che c’era [solo] una via ed era quella di espellere gli abitanti dei villaggi arabi e bruciare questi ultimi. E questo hanno fatto. E sono stati i primi a farlo” [4].

Proprio uno dei componenti del MAPAM, Ahdut Ha’avodah (Unità del lavoro), frutto di una scissione dal MAPAI, e sostenitore di uno stato socialista ebraico comprendente tutta la Palestina, aveva come base principale il Kibbutz Me’huad, il cui leader Yitzhak Tabenkin avrà anche odiato il colonialismo e, tuttavia, non era contrario al “trasferimento” dei palestinesi purché a suo dire non forzato. Ora, a parte l’uso dell’eufemismo “trasferimento”, la contrarietà su basi etiche e ideologiche di Tabenkin appare del tutto inconsistente alla luce del coinvolgimento di esponenti del Kibbutz Me’huad nell’Haganah, che il cosiddetto “trasferimento” lo implementava coi metodi indicati nel Piano Dalet, dunque non certo con l’accordo della popolazione palestinese. Ma l’aspetto forse più interessante, in figure come Tabenkin e Katznelson – il quale, scrive lo studioso Itzhak Galnoor, “non dichiarava di supportare solo il trasferimento volontario o in seguito ad accordo, da qui la conclusione che appoggiava quello forzato” – è che, anche quando vi sono scrupoli etici o ideologici, i palestinesi non sono comunque considerati soggetti con voce in capitolo, se non nel dare assenso a soluzioni concepite da altri. Assenso che nella realtà non era e non poteva essere poi tale, dato che costoro resistevano e, a fronte di ciò, i dibattiti teorici lasciavano il posto ai metodi spicci dell’Haganah; del resto altre personalità del MAPAI, parlando della questione non indugiavano in problemi morali quanto di fattibilità, come la futura prima ministra di Israele Golda Meir che così si esprimeva in proposito: “Anche io vorrei gli arabi fuori dal paese e la mia coscienza sarebbe assolutamente pulita. Ma vi è questa possibilità?” [5].

In definitiva è vero, non ci si trova certo di fronte a un’eccezione, ma non tanto rispetto ad altri movimenti nazionali, quanto ad altre forme di colonialismo, rispetto al quale il sionismo, nelle sue versioni socialiste si inscrive perfettamente nella visione positiva che ne fornivano figure e correnti della socialdemocrazia; il che non significa non vi siano tratti distintivi, in particolare rispetto ad altri “progetti di insediamento europeo oltremare”, afferma lo storico Zachary Lockman:

una consistente classe ebraica di lavoratori industriali, edili e dei trasporti venne creata e impiantata con successo, e l’insediamento agricolo assunse forme che escludevano e dislocavano più che sfruttare il lavoro salariato arabo.

Quanto all’imperialismo, prima quello britannico e oggi quello statunitense, il sionismo ha all’occorrenza rappresentato uno strumento, com’è sempre stato chiaro ai loro funzionari, per citare un esempio tra i tanti possibili, il primo governatore britannico a Gerusalemme, Ronald Storrs, vi scorgeva l’eventualità di costituire “per l’Inghilterra `un piccolo e leale Ulster ebraico´ in un mare di arabismo potenzialmente ostile”. A sua volta l’imperialismo ha garantito un contesto ineludibile, come scrive ancora Lockman, “Il successo relativo del sionismo laburista […] sarebbe stato inconcepibile in assenza di un regime coloniale simpatetico [quello britannico] che poteva mantenere la maggioranza indigena (ancora due terzi della popolazione nel 1947) a bada fino a quando Yishuv [l’insediamento ebraico in Palestina prima della fondazione di Israele] non sarebbe stato abbastanza forte per farvi fronte da sé”.

Lasciando il campo delle opinioni e dei dibattiti teorici circa il cosiddetto “trasferimento” e ritornando all’Histadrut, l’organizzazione, lungi dall’essere solo una federazione sindacale era ed è coinvolta in molteplici attività economiche, affermandosi come “uno dei maggiori datori di lavoro di Yishuv e di Israele, monopolizzando o dominando interi settori dell’economia”. Già alla sua fondazione, nel 1920, le voci, Ahdut Ha’avodah – formazione omonima a quella già citato ma emersa precedentemente – in alleanza con Hapo’el Hatza’ir (Il giovane lavoratore), inclini ad escludere i lavoratori palestinesi sommergevano quelle contrarie a un’organizzazione composta esclusivamente da lavoratori ebrei; un esclusione che rientrava in una pratica di discriminazioni nei confronti dei palestinesi più ampia e sistematica, come si evince dalla testimonianza di David Hacohen, dirigente di primo piano del MAPAI:

Ricordo di essere stato uno dei primi fra i nostri compagni a recarsi a Londra dopo la Prima guerra mondiale… Là divenni socialista… Quando mi unii agli studenti socialisti – inglesi, irlandesi, ebrei, cinesi, indiani, africani – ci rendevamo conto di essere tutti sotto dominio o governo inglese. E anche qui, in questo clima di intimità, dovevo scontrarmi con i miei amici sulla questione del socialismo ebraico, per difendere il fatto che non avrei accettato gli arabi nel mio sindacato, l’Histadrut; difendere l’esortare le casalinghe a non acquistare dai negozi arabi; difendere il fatto che montavamo la guardia alle coltivazioni per impedire ai lavoratori arabi di trovarvi lavoro… Di versare kerosene sui pomodori arabi; di attaccare le casalinghe ebree nei mercati e rompere le uova arabe che avevano comprato; di ringraziare il cielo per Kereen Kaymet [Fondo Nazionale Ebraico] che inviò Hanlon a Beirut per acquistare terra dagli effendi [grandi proprietari terrieri] assenteisti e cacciare i fellahin [contadini] dai campi […]

Oltre alle azioni descritte da Hacohen, l’Histadrut non esitava in alcuni casi a ricorrere a squadre anche armate per attaccare i lavoratori palestinesi e impedire che questi venissero impiegati negli insediamenti; nonostante occasionali episodi di lotta in comune fra lavoratori ebrei e palestinesi, nonché modesti tentativi di attrarre e organizzare i secondi, ma mai come pari o membri a pieno titolo, da parte dell’Histadrut, nell’operato di quest’ultima – così come dei kibbutz e delle formazioni socialiste, ad esclusione di quelle minoritarie anti-sioniste – a prevalere non poteva che essere l’esclusione e la discriminazione. Esclusione e discriminazione messe in atto sin dalle origni con metodi tristemente noti anche oggi, come si è potuto vedere nei recenti episodi di Sheikh jarrah e Silwan, con la differenza che ormai il colonialismo israeliano non necessità più di una facciata neanche timidamente socialisteggiante, trovando un’espressione ben più adeguata alle sue premesse e obiettivi nelle formazioni dell’estrema destra religiosa [6].


Note

  1. Si veda in proposito, Kim Scipes, AFL-CIO’Secret War Against Developing Country Workers. Solidarity or Sabotage, Lexington Books, 2010.
  2. Scipes, 2010, pp. 90-92; https://web.archive.org/web/20041208093855/http://psreview.org/content/view/18/70/.
  3. Jonathan Frankel, Gli ebrei russi. Tra socialismo e nazionalismo (1862-1917), Einaudi, 1990, p. 503; Enzo Traverso, The Jewish Question. History of a Marxist Debate, Brill, 2018, pp. 67-68, 69; Tom Segev, A State at Any Cost. The Life of David Ben-Gurion, Head of Zeus, 2019, consultato in ebook, ISBN 9781789544640.
  4. https://www.juragentium.org/topics/palestin/doc01/en/sternhel.htm; Walid Khalidi, Plan Dalet: Master Plan for the Conquest of Palestine, in Journal of Palestine Studies, Vol. 18, No. 1, autunno 1988; https://www.nytimes.com/1979/10/23/archives/israel-bars-rabin-from-relating-48-eviction-of-arabs-sympathy-for.html; Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, Cambridge University Press, 2004, p. 241.
  5. Joel Benin, Was the Red Flag Flying There? Marxist Politics and the Arab-Israeli Conflict in Egypt and Israel, 1948-1965, University of California Press, 1990, p. 26; Itzhak Galnoor, The Partition of Palestine. Decision Crossroads in the Zionist Movement, State University of new York Press, 1995, p. 171-172, 177; Nur Masalha, Expulsion of the Palestinians. The Concept of “Transfer” in Zionist Political Thought 1882-1948, Institute for Palestine Studies, pp. 1, 72.
  6. Yoav Peled, Delegitimation of Israel or Social-Historical Analysis? The Debate over Zionism as a Colonial Settler Movement, in Jack Jacobs (a cura di), Jews and Leftist Politics. Judaism, Israel, Antisemitism, and Gender, Cambridge University Press, 2017, pp. 103-122;  John Quigley, The Case for Palestine. An International Law Perspective, Duke University Press, 2005, p.8; Zachary Lockman, Comrades and Enemies. Arab and Jewish Workers in Palestine, 1906-1948, University of California Press, 1996, p. 54,56-57, 65-68; Nahla Abdo, Racism, Zionism and the Palestinian Working Class, 1920-1947, in Studies Political Economy, Vol. 37, No. 1, 1992, pp. 59-92; Deborah S. Bernstein, Constructing Boundaries. Jewish and Arab Workers in Mandatory Palestine, State University of New York Press, 2000, pp. 25, 206-215.

 

 

 

 

Lascia un commento

Your email address will not be published.

You may use these <abbr title="HyperText Markup Language">html</abbr> tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

*