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Le secessioni (dei ricchi) in Europa

secessioni dei ricchi

di Alberto Ferretti

Una inattuale, rapida ma forse necessaria precisazione sul secessionismo catalano dei ricchi, in lotta per affermare la propria indipendenza dal peso delle regioni più povere della Spagna.

Non è una novità che nell’età dell’imperialismo si scatenino forze a vario titolo propense a rimettere indietro le lancette della storia, e conseguentemente alla sua natura reazionaria, emergano processi che tendono a mettere sotto pressione, dove necessario, le conquiste della stessa rivoluzione borghese nella sua fase ascendente e progressiva. L’unità nazionale, conseguita in Europa nel corso del diciannovesimo secolo – col suo portato di liquidazione dell’ordine feudale e di centralizzazione delle classi subalterne sulla spinta della rivoluzione diretta dalla borghesia industriale – è fra esse.

In Europa oggi sperimentiamo una restaurazione sociale di stampo liberista dovuta alla sconfitta storica del movimento operaio e della classi subalternee europee, processo iniziato negli anni ’70 e concretizzatosi con la controrivoluzione del ’89. Ciò ha propiziato un processo di centralizzazione capitalistica transnazionale che si esprime nell’attuale progetto comunitario europeo, il quale ha fragilizzato le leve di controllo degli Stati nazionali, in particolare laddove non si concentra il capitale dominante; essi disarmano e diventano subordinati agli assetti euro-atlantici ricettacolo degli interessi degli oligopoli.

La borghesia finanziaria non ha più bisogno di unificazione produttiva su base di continuità territoriale, ma di modulabili hub di servizi e produzione, libera circolazione dei capitali con centri catalizzatori dell’accumulazione capitalistica che travalicano le frontiere nazionali. Si determinano così processi oggettivi di indebolimento e disgregazione statale che vanno a intaccare ambiti territoriali e nazionali alimentando spinte indipendentistiche, sapendo che i vari gruppi più avanzati della borghesia possono contare sul più ampio assetto europeo per uscire dal ristretto ambito nazionale.

Se è vero però lo Stato-nazione va stretto agli elementi più avanzati del grande Capitale, non dimentichiamo che esso ha anche permesso in passato alle classi subalterne di conseguire conquiste storiche in Europa, e di questo Stato la borghesia imperialista intende disfarsi: un assetto politico-istituzionale in cui i rapporti di forza di classe trovarono il luogo dell’espressione dei conflitti e della mediazione. Lo Stato-nazione in Europa è in conseguenza l’unica entità che potrebbe opporsi agli orientamenti transnazionali di compressione del Lavoro, alla guerra che il Capitale conduce da Bruxelles, e anche l’unico strumento che potrebbe servire a mettere in piedi una nuova e futuribile unione socialista.

Certo, un’ eventualità realizzabile solo se esistessero forze di classe in grado di riempire tale contenitore con una nuova sovranità popolare frutto di equilibri di forza derivanti dalla ricomposizione del mondo del lavoro e della sua emancipazione. Invece, in questa lotta tra le destre che cavalcano la secessione o le destre che pronano l’unità nazionale depotenziata, c’è una sinistra che si accoda per malinteso ribellismo ai secessionisti, mettendosi al servizio delle ribellioni reazionarie ed egoiste della borghesia più nazionalista e sciovinista. Assecondare la tendenza regressiva alla frammentazione in tale fase di restaurazione è – rispetto al lavoro prioritario di unificazione del movimento sociale dei lavoratori – semplicemente sconsiderato. 

A chi da sinistra crede di dover far parte di tale processo, invece di rifiutarlo in blocco, occorre dire che non basta far parte di un processo per sperare un giorno di dirigerlo, soprattutto se questo processo è oggettivamente reazionario come solo può esserlo una secessione delle regioni ricche all’interno dei centri imperialisti e che – al contrario di indebolire la classe dominante – ne rafforza una sua ala, nel caso spagnolo quello più internazionalizzata.

Un referendum che apre la strada inoltre alla frammentazione etnico-regionalistica, dividerà i lavoratori spagnoli, fomenterà inimicizie particolaristiche, e contribuirà a disfare quanto è stato fatto per unire stati, nazioni e classi subalterne, a tutto vantaggio di chi un centro di direzione unitaria e i monopoli economici e finanziari ce li ha e li usa, come la grande borghesia europea. Triste allora vedere le forze sociali e popolari più avanzate di Spagna seguire un progetto neoliberale di ripiego autonomista, piuttosto che mettersi alla testa di un vasto movimento per una Spagna unita e repubblicana, in grado di opporsi ai piani UE-NATO. 

In quest’ottica, anche il “semplice” mantenimento dell’unità nazionale ha aspetti progressivi (non un passo indietro), mentre la secessione è regressiva, il tutto però in un ambito in cui le differenti congreghe della destra, per debolezza dei rappresentanti del mondo del lavoro, impongono i loro progetti e lottano per l’egemonia. Comunque vada, in Catalogna e Spagna, le classi subalterne sono fuori gioco e preda di un nazionalismo particolarista, e sarà stato tolto loro ogni mezzo per affermare nel corso dello svolgimento degli eventi futuri ogni seria rivendicazione sociale e democratica all’altezza di dove si posiziona il nemico di classe.

E per pietà, non spenderemo parole per chi a sinistra straparla di “diritti di autodeterminazione” riferendosi alle regioni più prospere dei centri imperialisti, “popoli” oppressori e non oppressi, ricchi e non dipendenti e poveri.  Ci limitamo a concludere, che si sta minando la possibilità futura di una ricomposizione di rapporti di forza favorevoli su scala nazionale e internazionale per i lavoratori. Questo per le destre e i liberali è un obiettivo storico, la bandiere della Catalogna indipendente serve anche a questo; ma non per chi intende rappresentare i lavoratori e le classi subalterne in Europa.

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